Territorio

La Valle di Susa

Susa – La chiave d’Italia

La città di Susa, l’antica Segusio, prima città Cattolica e poi romana, sorge al centro della vallata sulla confluenza delle vie di collegamento internazionale che uniscono l’ Italia alla Francia attraverso i passi del Moncenisio e del Monginevro.
Proprio questa sua posizione geografica è il motivo della sua importanza storica. 
Molti storici accettano l’ ipotesi che l’ esercito di Annibale sia transitato per il passo del Monginevro.

Oggi, il traforo ferroviario ed autostradale del Frejus hanno rafforzato la sua  importanza come direttrice di collegamento.

Anche Giulio Cesare, nel corso della sua spedizione nelle Gallie, transitò per la Valle di Susa, e proprio in prossimità di Susa era posto il confine fra la Gallia Transalpina e la Gallia Cisalpina.

Proprio il riconoscimento dell’ importanza strategica della via di comunicazione spinse i romani a stringere alleanza con le popolazioni locali e pertanto Susa, capitale del regno di Cozio, ebbe da Augusto i diritti latini e fu da Nerone elevata a rango di Municipio. Proprio ad Augusto è dedicato l’ arco romano che rappresenta il suo principale monumento archeologico, ma sono presenti, per ricordare la sua storia, anche altre importanti testimonianze del periodo romano.

Dopo la caduta dell’ Impero Romano di Occidente il territorio cadde sotto l’ influenza dei Goti, dei Bizantini e dei Longobardi. Il confine, su cui erano presenti numerose fortificazioni, era detto “Chiuse Longobarde”.

I Longobardi furono poi sconfitti da Carlo Magno, che entrò in Italia, appunto, dal valico del Moncenisio.

Dopo Carlo Magno seguirono altre invasioni, finché la valle fu liberata da Arduino Glabrione, che combatté contro i Saraceni, poco prima dell’ anno 1000.

Nel 1001 Olderico Manfredi, nipote di Arduino, ottenne la signoria di tutte le terre che non fossero di proprietà della diverse abbazie che già erano state costruite in valle, quali la Novalesa e la Sacra di San Michele.

Le nozze fra Adelaide, figlia di Olderico, e Oddone, figlio di Umberto Biancamano, sancirono la riunificazione della Vale e l’ avvicinamento della famiglia dei Savoia ai discendenti di Arduino. L’ unione fu però di breve durata; dopo la morte di Adelaide la bassa valle rimase sotto l’ influenza dei Savoia, mentre l’ alta valle passò sotto l’ influenza del Delfinato.

In tutto il XIV secolo la valle visse le lotte fra i vari signorotti locali, nonché la rivalità fra Savoia e Delfinato.

La valle fu passaggio di eserciti e teatro di lotte interne, tra cui le guerre di religione contro Ugonotti e Valdesi.

Susa tornò in mano ai Savoia nel 1697 dopo le guerre contro il generale Catinat, mentre l’ Alta Valle tornò ai Savoia con la pace di Utrecht del 1713.

La Valle fu di nuovo attaccata nel 1794 dopo la Rivoluzione Francese, ma la Restaurazione la riportò a Vittorio Emanuele I nel 1814.

La valle non fu teatro di guerra nei due eventi bellici mondiali se non per eventi legati alla guerra partigiana. Il trattato di Parigi del 1947 ridefinì i confini nazionali italo-francesi assegnado il Moncenisio all’ambito francese.

Attualmente la bassa valle vive un periodo di transizione a causa della perdita di importanza dell’ agricoltura ed al decadimento dell’ industria.

Fermenti in valle in direzione di una agricoltura di qualità, di un’ industria sostenibile ed allo sviluppo del turismo e delle pur notevoli risorse artistiche, potranno portare in un prossimo futuro ad una auspicabile ripresa economica con la valorizzazione dei genius loci.

L’ alta valle, a parte il periodo di crisi contingente, può godere di un ottimo livello di turismo anche internazionale legato alle sue importanti stazioni sciistiche, ulteriormente valorizzate dalle manifestazioni olimpiche del 2006.

2013-05-05_Paolo Tonarelli

Exilles

Coltivare Cultura

È FIORITO IL TERZO PARADISO AL FORTE DI EXILLES

Consegnati al maestro Pistoletto la chiave della città e il sigillo d’argento del R.C. Susa e Val Susa

Dopo anni di impegno da parte di tanti attori, nell’ambo dell’operazione collettiva “Coltivare Cultura” condotta dal Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, sabato 18 aprile alle pendici del forte di Exilles (To) è  stata avviata la realizzazione della prima opera di land art nella Valle, simbolo di rinascita e di pace: il Terzo Paradiso del maestro dell’Arte Povera Michelangelo Pistoletto.

La performance è stata preceduta, nella sala consigliare del Comune, dal workshop “Cultivar Cultura” organizzato dal piano di valorizzazione “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina” con SusaCulture, rappresentata da Catterina Seia, dedicato a operatori e imprese agricole del territorio chiamati a formulare una proposta di recupero e rivitalizzazione delle superfici agrarie legate al patrimonio culturale, per far sì che i siti possano essere inseriti in un paesaggio valorizzato e valorizzante. Gli stessi operatori hanno anche allestito alcune bancarelle di esposizione e vendita dei loro prodotti mentre i ristoratori hanno proposto speciali menu a tema “Gustare Exilles” con piatti a base di lavanda.

Una gremita piazza Vittorio Emanuele ha quindi ospitato la conversazione pubblica condotta da Paola Zanini, project manager del Dipartimento Educazione Castello di Rivoli, intorno al tema “Un giardino fiorisce su un forte e guarda l’Europa. Quale significato collettivo?” introdotta dalle note del violino di Eillis Cranicht dello Xenia Ensamble.

Hanno portato il proprio contributo Michelangelo Castellano, sindaco di Exilles; Alberto Dotta, direttore del Consorzio Forestale Alta Valle Susa; don Gianluca Popolla per il piano di valorizzazione “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina”; Massimiliano Pio, presidente Rotary Club Susa Val Susa; Pier Umberto Ferrero de Il Salone del Libro; Antonella Parigi, assessore a Cultura e Turismo della Regione Piemonte; Davide Forte Presidente di Etinomia; Marilena Gally, dirigente liceo del liceo “Norberto Rosa”; la professoressa di arte Monica De Silvestro, coordinatrice degli interventi degli studenti dello stesso liceo che si sono interrogati sulle contraddizioni fra rispetto dell’ambiente e innovazione tecnologica domandandosi “Ne vale la pena?”.

 Particolarmente significativa la presenza degli amministratori della Valle di Susa e degli imprenditori di Etinomia. Due meritate onorificenze sono state tributate al maestro Michelangelo Pistoletto: la cittadinanza onoraria di Exilles con la consegna  della chiave degli orti della città e per i valori assoluti  di co-responsabilità espressi dal Terzo Paradiso del  Sigillo d’Argento che il Rotary Club Susa Valsusa, assegnato alle personalità originarie della Valle che si sono distinti nel mondo.

 “Ho realizzato questo segno in quanto commissionato dalla società – ha dichiarato Michelangelo Pistoletto – Io sono qui per ribadire la necessità attraverso questo segno di avvicinare gli opposti. Nel cerchio centrale c’è la loro combinazione, mettendoli su un piano di connessione faremo un’operazione creativa: unire le diversità non per distruggerle ma per far nascere qualcosa che non esisteva”.

Exilles, in una giornata splendida ha dato il meglio di sé. Il paese ospitava agricoltori biologici, prodotti di piante officinali e i ristoratori hanno varato menu nel  segno del Terzo Paradiso i menu alla lavanda, pianta autoctona che caratterizzava il paesaggio fino a 50 anni fa.

La giornata è stata coronata dalla performance collettiva consistita nell’avvio della piantumazione del giardino del Terzo Paradiso sul “giasset” del Forte, dove era stato segnato dagli studenti, dal Consorzio Forestale e dall’arch. paesaggista Giorgio Ferraris,  il simbolo che verrà riempito con undicimila lavande fornite dai vivai regionali e messe a dimora dal 

Consorzio Forestale Alta Valle di Susa. La messa a dimora durerà due settimane. La fioritura è prevista per fine luglio.

Il grande giardino guarderà l’Europa e rifiorirà tutte le estati inondando di profumo e colore la vallata alpina. Ogni lavanda sarà idealmente dedicata a un nascituro/a del territorio.

Sara Ghiotto
Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina 

Le abbazie

In Valle furono costruite numerose abbazie, come sedi monastiche per il supporto a chi faceva uso delle vie di comunicazione e come strategico controllo del territorio.

LA SACRA DI SAN MICHELE
La Sacra di San Michele è un complesso architettonico collocato sul monte Pirchiriano, all’imbocco della Val di Susa. E’ il monumento simbolo della regione Piemonte.

Recentemente ristrutturato, è affidato alla cura dei padri Rosminiani.
Secondo alcuni storici, già in epoca romana esisteva, nel luogo in cui sorge ora l’abbazia, un presidio militare che controllava la strada verso le Gallie. Successivamente anche i Longobardi installarono in quella zona un presidio che fungesse da baluardo contro le invasioni dei Franchi.
Le fasi iniziali della nascita della Sacra di San Michele sono incerte e avvolte in un’alternanza di storia e racconti leggendari. Lo storico più antico fu un monaco Guglielmo, vissuto proprio in quel monastero e che, intorno alla fine dell’ XI secolo, scrisse il Chronicon Coenobii Sancti Michaelis de Clusa. In questo scritto, la data di fondazione della Sacra è indicata nel 966.
La struttura fu affidata ai monaci Benedettini e si sviluppò dando anche asilo materiale e conforto spirituale ai pellegrini che percorrevano la via francigena. A questo scopo fu costruita anche una foresteria, separata dal corpo principale dell’ Abbazia e capace di ospitare numerose persone.
Il Monastero Nuovo, oggi in rovina, venne edificato sul lato nord e aveva tutte le strutture necessarie alla vita di molte decine di monaci: celle, biblioteca, cucine, refettorio, officine. Di questa costruzione rimangono oggi solo dei ruderi affacciati sulla Val di Susa: era un edificio a cinque piani, la cui imponenza è manifestata dalle vestigia,muraglioni ed archi, pilastri che si possono intravedere. Svetta, su tutte le rovine, la Torre della bell’Alda, oggetto di una suggestiva leggenda: una fanciulla, la bell’ Alda appunto, volendo sfuggire dalla cattura di alcuni soldati di ventura, si ritrovò sulla sommità della torre. Dopo aver pregato, disperata, preferì saltare nel burrone piuttosto che farsi prendere; le vennero in soccorso gli angeli e miracolosamente atterrò illesa ai piedi del monte. La leggenda vuole che, per dimostrare ai suoi compaesani quanto era successo, tentasse nuovamente il volo dalla torre, ma che, per la vanità di questo gesto, rimanesse uccisa nella caduta.
L’Abate Ermengardo, che resse il monastero dal 1099 al 1131, fece realizzare l’opera più ardita di tutta l’imponente costruzione, l’impressionante basamento che, partendo dalla base del picco del monte, raggiunge la vetta e costituisce il livello di partenza per la costruzione della nuova chiesa. Questo basamento è alto ben 26 metri ed è sovrastato dalle absidi che portano la cima della costruzione a sfiorare i 1.000 metri di altitudine rispetto ai 960 del monte Pirchiriano. Proprio la punta rocciosa del monte Pirchiriano costituisce la base di una delle colonne portanti della chiesa ed è tuttora visibile e riconoscibile grazie alla presenza di una targa riportante la dicitura: “culmine vertiginosamente santo” modo in cui amava definire questo posto il poeta rosminiano Clemente Rebora.
La nuova chiesa, che è quella attualmente agibile, è stata eretta su possenti strutture e sovrasta le più antiche costruzioni che sono state così inglobate. Questa costruzione dovette richiedere molti anni e il trascorrere del tempo è documentato nel passaggio che si trova all’interno delle campate tra il pilastro cilindrico e quello polistilo e nel variare del gusto che passa dal romanico al gotico francese sia nelle decorazioni che nella forma delle porte e delle finestre.

Dal protiro, altissimo a più piani, si accede allo Scalone dei Morti, così chiamato perché anticamente era fiancheggiato da tombe. Qui si trova la Porta dello Zodiaco, con gli stipiti decorati da rilievi dei segni zodiacali, che all’epoca erano un modo per rappresentare lo scorrere del tempo (quindi una sorta di memento mori). In questi rilievi si possono riscontrare influenze della scuola scultorea francese.

Gli interventi fatti per adattare lo sviluppo architettonico al particolare ambiente costituito dalla vetta del Pirchiriano hanno portato al rovesciamento degli elementi costitutivi fondamentali. In tutte le chiese la facciata è sempre localizzata frontalmente rispetto alle absidi poste dietro l’altare maggiore e contiene il portale di ingresso; al contrario, la facciata della Sacra si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello Scalone dei Morti. La facciata è sotto l’altare maggiore, ed è sovrastata dalle absidi con la Loggia dei Viretti, visibile dalla parte del monte rivolta verso la pianura.
Dopo seicento anni di vita benedettina, nel XVII secolo, la Sacra restò quasi abbandonata per oltre due secoli. Nel 1836 e Carlo Alberto di Savoia, desideroso di far risorgere il monumento che era stato l’onore della Chiesa piemontese e del suo casato, pensò di collocare, stabilmente, una congregazione religiosa. Offrì l’opera ad Antonio Rosmini, giovane fondatore dell’Istituto della Carità, che accettò, trovandola conforme allo spirito della sua congregazione.
Papa Gregorio XVI, con un breve dell’agosto 1836, nominò i Rosminiani amministratori della Sacra e delle superstiti rendite abbaziali. Contemporaneamente, il re affidò loro in custodia le salme di ventiquattro reali di casa Savoia, traslate dal Duomo di Torino, ora tumulate in santuario entro pesanti sarcofaghi di pietra. La scelta di questa antica abbazia evidenzia la prospettiva della spiritualità di Antonio Rosmini che, negli scritti ascetici, richiama costantemente ai suoi religiosi la priorità della vita contemplativa, quale fonte ed alimento che dà senso e sapore ad ogni attività esterna: nella vita attiva il consacrato entra solo dietro chiamata della provvidenza e tutte le opere, in qualsiasi luogo o tempo, sono per lui buone se lo perfezionano nella carità di Dio. I padri Rosminiani restano alla Sacra anche dopo la legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici del 1867 che spogliava la comunità religiosa dei pochi averi necessari per un dignitoso sostentamento e un minimo di manutenzione all’edificio che conserva numerose opere d’arte.
Nel XX secolo particolare importanza riveste la visita di papa Giovanni Paolo II il 14 luglio 1991, nel corso della sua visita alla diocesi di Susa per la beatificazione del vescovo Edoardo Giuseppe Rosaz.
Umberto Eco ha inteso ambientare il suo romanzo “Il nome della rosa” proprio nella Sacra di San Michele che con la sua suggestiva struttura sapientemente illuminata è, di sera, visibile da gran parte della bassa valle e della zona ovest dei dintorni Torino.
Nell’ estate è spesso sede di prestigiosi concerti di musica sacra, particolarmente suggestivi nella splendida sede della chiesa nuova.

L’ABBAZIA DELLA NOVALESA

L’ atto di fondazione dell’ Abbazia dei Santi Pietro e Andrea, detta poi comunemente Abbazia della Novalesa, risale al 30 gennaio 726 ed è firmato dal signore franco di Susa, Abbone. Il primo abate del monastero fu san Godone.

I re francesi Pipino il Breve e Carlo Magno concessero all’ Abbazia numerosi privilegi, come l’  elezione libera dell’ Abate ed il pieni possesso dei beni attribuiti. Le proprietà dell’ Abbazia si estendevano fino all’ entroterra ligure.

Nell’ 817 Benedetto di Aniane, a seguito della riforma voluta da Ludovico il Pio, adottò definitivamente la regola benedettina.

La massima fioritura dell’ Abbazia fu nella prima metà del VII secolo.
L’ Abbazia fu distrutta dai Saraceni nel 906 e successivamente ricostruita nella prima metà dell’ XI secolo.

Nel 1646 i Benedettini furono sostituiti dal Cistercensi che vi rimasero fino al 1798 quando furono espulsi dal Governo provvisorio piemontese.

Napoleone , nel 1802, affidò la gestione dell’ ospizio sul valico del Moncenisio ai monaci trappisti di Tamié, con lo scopo di assistere le truppe francesi in transito. Dopo la caduta di Napoleone i monaci si spostarono alla Novalesa rifondandola.

 L’ Abbazia fu soppressa nel 1855 dal governo piemontese ed i numerosi ed importanti manoscritti furono trasferiti all’ Archivio di stato di Torino.

Nel 1972 il complesso fu acquistato dalla Provincia di Torino che lo affidò a monaci benedettini provenienti da Venezia.

L’abbazia di Novalesa è divisa in edificio monastico e chiesa abbaziale.

L’abbazia vera e propria, che conserva ancora tracce dei precedenti edifici, si sviluppa alla destra della chiesa e vi si accede tramite un portale che immette in un primo cortile, con portico a tre campate con volta a crociera sormontato da un loggiato. Tutto l’edificio monastico si sviluppa attorno ad un cortile centrale che ospita, al suo interno, le due ali superstiti del chiostro cinquecentesco, una con cinque ed una con sette archi a tutto sesto sorretti da tozze colonne cilindriche in mattoni prive di capitello. All’incrocio fra le due ali del chiostro, si eleva il campanile, costruito tra il 1725 e il 1730, la cui sommità raggiunge l’altezza di 22,50 metri[3].

La chiesa abbaziale, dedicata ai santi apostoli Pietro ed Andrea, è stata costruita nel XVIII secolo al posto di una preesistente chiesa romanica del XI secolo, della quale rimangono alcuni affreschi tra cui la Lapidazione di Santo Stefano[4]. La chiesa attuale è in stile barocco ed è a navata unica con volta a botte lunettata e due cappelle per lato; la lunga navata è per metà adibita a presbiterio, con il moderno altare maggiore marmoreo sormontato da un crocifisso ligneo ed il coro dei monaci, e termina con un’abside semicircolare. Sulla cantoria in controfacciata, si trova l’organo a canne[5], costruito da Cesare Catarinozzi nel 1725 ed in seguito oggetto di una serie di interventi. È a trasmissione integralmente meccanica, con un’unica tastiera di 50 note e pedaliera a leggio di 18 note costantemente unita al manuale. Di seguito, la disposizione fonica dello strumento:

SANT’ANTONIO DI RANVERSO

Nella bassa valle si trova la precettoria di Sant’ Antonio di Ranverso.
Il complesso fu fondato nel 1188 da Umberto III di Savoia e dato in uso ai Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne, con l’intento di creare un punto di assistenza per i pellegrini ed, in particolare, un centro di trattamento di coloro i quali erano afflitti dal “fuoco di sant’Antonio”.

Infatti, anche Sant’ Antonio di Ranverso si trova sulla via francigena.

Con l’avvento dell’epidemia di peste della seconda metà del XIV secolo la precettoria ospiterà anche gli affetti da questa terribile malattia.

L’isolamento delle piaghe infette avveniva attraverso grasso di maiale per evitare l’espandersi dell’infezione. Il richiamo all’iconografia di Sant’ Antonio abate è esplicita: il santo appare sempre accanto ad un maialino.
La precettoria subì, nel corso dei secoli, diverse ristrutturazioni che ne alterarono la forma originale.
Comprendeva inizialmente un ospedale, di cui rimane solo una facciata, la precettoria e la chiesa. La chiesa stessa appare oggi nello stile gotico-lombardo, del rifacimento dei secoli XIV e XV. Adiacente alla chiesa vi è il campanile, eretto in stile gotico dal 1300.
All’interno i muri sono decorati con numerosi affreschi a partire dal XIII secolo, alcuni dei quali dipinti da Giacomo Jaquerio agli inizi del Quattrocento. Fra le opere di questo artista si conserva inoltre la scena Salita al Calvario nella sacrestia, capolavoro dell’artista e del Gotico internazionale in Piemonte.
Nel presbiterio vi è un polittico di Defendente Ferrari del 1531, il quale include porte dipinte per la protezione dell’opera principale.
Nel 1776 papa Pio VI assegnò la proprietà della precettoria all’ordine Mauriziano, a cui è affidata tuttora.
All’interno della chiesa il soffitto è caratterizzato da volte a crociera. Il centro di ogni crociera è decorato con motivi differenti che raffigurano la storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla resurrezione di Cristo.
Nella prima crociera è visibile un cerchio con stelle chiare su sfondo rosso e nero rappresentante la creazione.
Nella seconda crociera è visibile un decoro a bassorilievo rappresentante un angelo che rappresenta l’incarnazione di Gesù.
Nella terza un agnello indicativo del Natale.
Le ultime due crociere sono decorate rispettivamente con una stella rossa su fondo scuro a simboleggiare la morte di Gesù e una stella su fondo chiaro a simboleggiarne la resurrezione. Queste decorazioni sono originali, coeve con la costruzione della chiesa. La rappresentazione del sole nell’abside invece è di fattura successiva, probabilmente settecentesca.

ABBAZIA DI MONTEBENEDETTO
Il Monachesimo Certosino fu fondato da San Brunone. Nel 1084 egli chiese ed ottenne dal vescovo Ugo di Grenoble una impervia zona montana ove con l’aiuto di pochi compagni, fondò quella che sarebbe divenuta una della più grandi Certose di Francia, La Grande Chartreuse di Grenoble.
Nei decenni successivi l’ Ordine si espanse notevolmente ed al tempo del suo massimo fulgore, nel XIV secolo, si contavano in Europa ben 168 monasteri.
Nel 1189 alcuni monaci, distaccati dalla loro casa madre, ottennero dal conte Tommaso I di Moriana il territorio della Losa, sopra Gravere, dove costruirono un piccolo monastero. Successivamente lo stesso Tommaso donò loro un più ampio terreno sopra Villarfocchiardo, ad un’altezza di 1200 mslm, a Montebenedetto, dove venne costruita la chiesa con un importante complesso monastico.
 Nel 1473 una piena danneggiò la certosa di Montebenedetto e la comunità dovette trasferisrsi a Banda, mentre quello che rimaneva della precedente costruzione venne adibita a grangia per le attività contadine.
Dopo una successiva permanenza della comunità monastica ad Avigiana, i monaci si trasferirono di nuovo a Banda, fino alla fondazione, nel 1641, sotto la reggenza della Madama Cristina, della Certosa Reale di Collegno.
La storia della comunità si concluse con l’ invasione francese del 1700 ed al successivo scioglimento degli ordini monastici e la confisca dei relativi beni, nonostante un breve ritorno alla Certosa di Collegno dopo la Restaurazione.
La Certosa di Montebenedetto riveste un particolare interesse nell’ambito della storia certosina e più largamente nella storia delle strutture monastiche alpine. E’, infatti, una delle più antiche fondazioni dell’ordine certosino in Italia ma, a differenza di altre certose, è stata abbandonata in età ancora bassomedievale e non ha quindi subito le variazioni organizzative e planimetriche che hanno caratterizzato le altre certose all’epoca della Controriforma. E’ quindi possibile attingere importanti e rare informazioni circa l’organizzazione delle strutture monastiche e produttive caratterizzanti la fase iniziale e medievale dell’ordine che, in questa realtà potrebbero essere presenti intatte ed in larga misura sotto la profonda coltre di detriti trasportati durante la piena che nel 1473 distrusse la certosa, mentre altrove tali tracce non sono più reperibili in quanto sepolte sotto nuove strutture. Nel suo complesso la certosa è vissuta approssimativamente dal 1198, epoca in cui si insediarono i certosini provenienti da La Losa (sopra Susa), al 1473 quando fu distrutta dall’alluvione. Quanto resta dell’attuale certosa è pertanto la struttura “congelata” nel tempo di una costruzione della metà del XV secolo.
Il perno di ogni complesso certosino era la chiesa. Le severe regole Certosine imponevano infatti che nel luogo prescelto per edificare un nuovo complesso abbaziale, doveva essere edificata a priori la “Casa di Dio” dove giornalmente si celebrava la messa.
La chiesa di Monte Benedetto risente degli stili, comuni e coevi alla nascita del movimento di S. Bruno, delle congregazioni di Chalais, di Citeaux e di Grandmont che avevano abbracciato gli ideali di povertà e di semplicità nell’ambito della riforma ecclesiastica del XII secolo e conservava queste caratteristiche anche alla metà del XV secolo.
Nel caso di Monte Benedetto la chiesa è l’unico manufatto del complesso certosino che si è mantenuto interamente. Essa misura 23.70 x 6.90, è illuminata da tre finestre per lato, a profonda strombatura ed arco a tutto sesto con dimensioni di 1.85 per 0.85 m all’esterno. Il presbiterio ha l’abside piatta, caratteristica di tutte le certose, orientata a levante e più stretta della navata (5.78 m); la volta a botte a pieno sesto ha un’altezza di 10 m; lo spessore dei muri a terra è di circa 1.60 m.; sul lato sinistro dell’altare in pietra si accede alla sacrestia tramite una porta che attraversa un muro di 2 m. di spessore all’interno del quale è stata ricavata una scala che permette l’accesso al sottotetto.
Nella facciata principale a ponente si aprono una finestra romanica ed una massiccia porta con gli stipiti in blocchi di pietra e un monolito per architrave; in origine l’ingresso era sovrastato da un portico la cui esistenza è comprovata dalla presenza delle mensole a rostro nelle loro sedi.
Originariamente nelle pareti nord e sud si aprivano l’una di fronte all’altra due porte poste a circa 11.70 m dalla facciata quindi a metà chiesa. Dalla lettura della giacitura murale si leggono bene le tre fasi costruttive della chiesa che l’hanno portata ad essere quella attuale.

Secondo gli usi certosini i monaci non accedevano al coro tramite la porta di facciata che rivestiva poca importanza (tanto che alla certosa di Banda non era neanche presente). In particolare a Monte Benedetto l’ingresso dei monaci avveniva dal lato nord che comunicava con il chiostro grande.
All’interno della chiesa è visibile, sulla parete sud, quasi all’angolo della facciata, un’altra porta di circa 2.20 x 1 m. sopraelevata all’interno rispetto al pavimento di 0.50 m. (erano sicuramente presenti un paio di gradini); era la porta tramite la quale i conversi accedevano al loro coro. La porta dei conversi conferma la posizione lungo il fianco sud della chiesa del piccolo chiostro (la cui copertura è ancora denunciata dai rostri in pietra), sul quale doveva affacciarsi anche il refettorio.
Punto focale di ogni certosa era il passaggio fra il chiostro grande e la chiesa. I monaci di Monte Benedetto risolsero il problema erigendo un portico sulla facciata nord della chiesa di cui rimangono ancora le mensole. Per quanto concerne il chiostro grande, l’ubicazione delle celle si trovava sicuramente attorno all’area est della chiesa e sul lato nord; ci sono invece incertezze sul lato sud dove la distruzione ad opera della piena fu pressoché totale.
L’intero complesso della casa alta era circondato da un muro di cinta a tratti ancora visibile nella parte nord-ovest; resti sono invece presenti a monte del pianoro sul lato sud del complesso.
Durante i mesi estivi viene utilizzata al fine di promuovere manifestazioni turistico culturali.
E’ stata inoltre allestita nella chiesa una mostra permanente che illustra il mondo certosino e la storia della certosa, mentre nelle immediate vicinanze è stato realizzato un sentiero “autoguidato” con la descrizione dei vari edifici che facevano corona alla chiesa dei quali, come già evidenziato, non rimangono che poche tracce.

Grazie all’acquisizione al patrimonio della Regione Piemonte nel 2009 la sua gestione è stata affidata al parco Regionale Orsiera Rocciavrè dopo un importante ciclo di restauri che hanno reso fruibile la chiesa e la foresteria. Quest’ultima a disposizione di turisti ed escursionisti di passaggio.

2013-05-05_Paolo Tonarelli

Le fortificazioni

La travagliata storia della Valle di Susa ha portato, nel corso dei secoli, alla costruzione di fortificazioni, alcune delle quali recentemente restaurate, visitabili e sede di manifestazioni culturali.

FORTE  DI EXILLES
Il Forte di Exilles è uno dei più importanti sistemi difensivi del Piemonte. A varie riprese fu impiegato sia dai Savoia che dai francesi, in quanto, posto in una zona ristretta della valle, può difendere in entrambe le direzioni.
Già nel VII secolo alcune cronache parlano di fortificazioni nella zona.
Nel 1155 la fortezza appartiene ai Bermond di Besançon, conti di Albon, per la protezione della strada che portava al Monginevro.
Una prima descrizione risale al 1339, ma cita anche alcune torri, non più presenti n  ella struttura attuale.
Alla fine del XV secolo viene  usata come deposito di munizioni dai francesi di Carlo VIII, mentre successivamente viene ampliata e rinforzata dai Savoia.
Il forte passa di mano svariate volte e tornarà ad essere Savoia nel  1708, dopo un mese di assedio.
Precedentemente i francesi avevano rinforzato le difese del forte e lo avevano utilizzato come punto chiave logistico di primaria importanza. Dal 1601, anno del trattato di Lione, imponenti lavori di restauro sotto la guida dell’ingegner Jean de Beins avevano rimodernato la struttura, resa ormai insufficiente dall’avvento dell’artiglieria. Fra le altre cose era stata costruita la Rampa Reale, lunga un chilometro e lastricata a ciottolato, che conduce all’ingresso principale, varcato il quale si dipanano due ripide salite a tenaglia che conducono alla cittadella vera e propria, edificata intorno all’enorme Cortile del Cavaliere, nucleo centrale della costruzione. Altre aggiunte erano state una cappella (oggi sconsacrata e utilizzata per concerti) e il pozzo, profondo 70 metri e realizzato in quattro anni di scavi.
Il Trattato di Utrecht sancirà infine la definitiva appartenenza della intera Valle di Susa (e, quindi, anche del forte di Exilles) al neonato Regno di Sicilia (che poco dopo diventerà Regno di Sardegna). Nel 1720 viene incaricato l’architetto Ignazio Bertola, figlio adottivo di Antonio, di rafforzare il Forte di Exilles. I lavori durano oltre sei anni (terminano nel 1726) ed alla fine il forte risulta un gioiello di arte militare. Nel settembre del 1745, nel corso della guerra di successione austriaca, le tuppe francesi tentano di aprirsi la strada verso la bassa valle di Susa attaccando il forte, ma vengono respinti dalle cannonate della guarnigione al comando del capitano Papacino d’Antoni.
Con l’avvento di Napoleone Bonaparte il forte è destinato alla demolizione: così vuole il Trattato di Parigi, stipulato a seguito dell’armistizio di Cherasco). Verrà riedificato con il ritorno del Piemonte e della Savoia al Regno di Sardegna, sancito dal Congresso di Vienna (1814). La ricostruzione dura dal 1818 al 1829: viene riproposta la stessa architettura preesistente, aggiornandola soltanto alle nuove esigenze militari.
L’8 settembre 1943 il Forte di Exilles viene abbandonato definitivamente dall’esercito e rimane a lungo in balìa dei vandali e degli eventi atmosferici. Nel 1978 la Regione Piemonte acquisisce il bene dal Demanio Militare con comodato, con l’impegno di provvedere al restauro e recupero funzionale del monumento. Viene quindi sviluppato il progetto di restauro conservativo, interno ed esterno, finalizzato alla definizione di un assetto complessivo del Forte tale da costituire il riferimento globale per tutti i successivi interventi. Nell’aprile del 1996 viene stipulata una Convenzione tra la Regione Piemonte e il Museo Nazionale della Montagna di Torino per la valorizzazione e promozione del Forte di Exilles. Il monumento e le aree museali sono state aperte al pubblico l’8 luglio 2000.

FORTE DELLA BRUNETTA
I lavori per la costruzione del Forte della Brunetta vennero iniziato nel 1708, nel quadro di un rafforzamento delle fortificazioni ai confini del Ducato di Savoia che si erano mostrate capaci, durante la guerra di successione spagnola, di essere in grado di arrestare o rallentare pesantemente le operazioni militari nemiche. Il forte su consegnato circa 30 anni dopo la posa della prima pietraVai a: navigazione, ricerca
Il sito prescelto per ospitare il nuovo forte fu uno sperone di roccia, detto altura della Brunetta, che sovrastava la cittadina di Susa situato sulla sponda sinistra della Dora Riparia, fra questo corso d’acqua e il torrente Cenischia. Il progetto del nuovo forte furono affidati all’ ingegnere sabaudo Antonio Bertola e l’opera incluse il vecchio forte S. Maria, protagonista di numerosi eventi bellici che però l’avevano ridotto in rovina, e la ridotta Catinat che controllava dall’alto in modo specifico lo sbocco della Val Cenischia.
Il forte, che era in realtà una vera e propria cittadella militare estesa più di 300 000 m², possedeva i suoi bastioni scolpiti direttamente nella viva roccia ed era considerato imprendibile. Sia l’imperatore austro-ungarico Giuseppe II che visitò la fortezza nel 1769 sia lo zar russo Paolo che vi soggiornò nel 1791, ne furono sinceramente meravigliati. Il forte non sparò mai neanche un colpo, in quanto durante le campagne napoleoniche l’esercito francese transitò dal colle del Gran S. Bernardo investendo il forte di Bard.
Nel 1796 Napoleone, sconfitto il Regno di Sardegna, con l’armistizio di Cherasco impone la distruzione di tutte le fortificazioni del regno, compreso il forte della Brunetta.
Con la restaurazione fu decisa la ricostruzione dei forti distrutti ma non di quello della Brunetta. Napoleone aveva reso carrozzabile la strada del Moncenisio e apparve dunque evidente come uno sbarramento fortificato avrebbe dovuto trovarsi prima del colle. Al posto del forte della Brunetta fu dunque decisa la costruzione di un complesso fortificato presso il sito dell’Esseillon in Savoia.
Il sito del forte, completamente smantellato, oggi è proprietà privata. Il restauro di molte delle strutture ne permette l’ utilizzazione come albergo luogo per ricevimenti e manifestazioni culturali.

FORTE BRAMAFAM
Il forte Bramafam è una fortificazione che si trova in Val di Susa, vicino a Bardonecchia; eretto sul costone omonimo (1447 m.s.l.m.) al margine sud orientale della conca di Bardonecchia, per estensione ed armamento può essere considerata la più grande opera fortificata di fine Ottocento delle Alpi Cozie.
La fortificazione venne costruita tra il 1874 e il 1889. Fu costruito per difendere la linea ferroviaria Torino-Modane ed il traforo ferroviario del Frejus, inaugurati in quegli anni. Il forte, che all’apice della funzionalità contava più di 200 unità, controllava il paese di Bardonecchia e le valli della Rho e del Frèjus e teneva sotto tiro l’imbocco italiano del traforo ferroviario da allora probabili attacchi francesi.
In origine il forte aveva in dotazione 4 cannoni da 9 ARC Ret disposti in barbetta puntati contro l’imbocco del traforo. Fra il 1883 e il 1889 assunse l’aspetto di un vero e proprio forte dotato di diversi tipi di artiglieria. Nel 1892 una relazione del servizio di spionaggio francese segnalava come il forte poteva definirsi ormai completo e che presto sarebbe stato dotato di artiglieria in cupola. Il Bramafam adottò infatti le prime installazioni corazzate impiegate dalle fortificazioni italiane. Si trattava di affusti corazzati, prodotti dalla casa tedesca Gruson di Magdeburgo, armati con un cannone 12 GRC Ret da 120 mm. L’opera disponeva anche di quattro torrette a scomparsa Gruson per cannone a tiro rapido da 57 mm: si trattava di una torretta metallica che normalmente aderiva con la superficie superiore al piano della copertura. Con un meccanismo a contrappeso la si poteva sollevare, far uscire la volata del pezzo, sparare e quindi farla tornare nella posizione iniziale; questi cannoni erano del tutto simili a quelli installati al Forte del Colle delle Finestre ed al forte Combe nei pressi di Giaglione). Inoltre vi erano anche 6 cannoni da 87B in barbetta, 2 cannoni da 15 GRC Ret ed altri pezzi pronti per essere posti in batteria qualora se ne fosse mostrata la necessità.
Disarmato parzialmente nel corso della Prima guerra mondiale, il forte fu adibito a campo di prigionia per gli austriaci che lavoravano in zona alla manutenzione delle strade militari e della galleria del Fréjus. Negli anni Trenta l’opera venne integrata con la costruzione di due moderni centri di resistenza in caverna del Vallo Alpino ed armata, oltre che dalle 2 torri 120/21, anche da una sezione di cannoni da 149/35. Nonostante fosse superata per concezioni tecniche, fu costantemente presidiato ed armato.
Il 21 giugno 1940, nel corso dell’offensiva italiana contro la Francia, il forte fu bersagliato dai tiri dell’artiglieria nemica e dalle bombe lasciate cadere da sette aerei francesi: i danni si limitarono però soltanto ad alcune strutture esterne.
Nel settembre del 1943 venne occupato da un piccolo presidio tedesco che, per timore di colpi di mano dei partigiani, minò accuratamente tutta l’area circostante. Fu abbandonato dagli ultimi tedeschi in ritirata solo la mattina del 27 aprile 1945. Cessate le ostilità, in ottemperanza alle clausole del trattato di pace, l’opera venne dismessa dall’Esercito e abbandonata.
Il forte è ora gestito dall’Associazione per gli Studi di Storia e Architettura militare di Torino che ne cura, con rilevanti interventi di ripristino, il recupero funzionale per farlo diventare sede di mostre e di manifestazioni. Attualmente sono stati recuperati oltre 6000 m². Gli allestimenti museali sono stati realizzati nella caserma Ufficiali, caserma Truppa, nell’area dell’atrio e del corpo di guardia, nella caponiera e nell’accesso ad una torretta da 57 mm. Una di queste torrette è stata recentemente rifatta e rimessa in sito a cura dell’associazione che gestisce la fortezza.

2013-05-05_Paolo Tonarelli

Resort invernali

Le splendide montagne che coronano l’ alta valle e la naturale ospitalità e laboriosità degli abitanti hanno permesso lo sviluppo del turismo, in particolar modo quello invernale.

Fu proprio a Sauze d’ Oulx, nell’ alta valle, che l’ Ing. Kind, svizzero di nascita ma residente a Torino, dette, oltre 100 anni fa, le prime dimostrazioni dell’ attività sciistica: nacque, a 2060 metri di altezza, Sportinia, la prima stazione italiana di sci invernale.

Centri come Bardonecchia, Sauze d’ Oulx, Sansicario, Cesana, Claviere, Grangesises e Sestriére sono collegati da oltre 150 Km di piste ed impianti di risalita che permettono di scoprire ad ogni discesa nuovi panorami ed angoli di questa bellissima vallata, offrendo contemporaneamente un piacevole soggiorno ed occasioni di svago anche a chi non pratica lo sci.

Il Frais, anche detto Pian del Frais, è una frazione del comune di Chiomonte, che dista appena 60 Km da Torino.

Situato a 1.500 metri di altezza, è una località di villeggiatura estiva e invernale. Grazie ai 4 impianti di risalita per lo sci alpino e ad una pista ad anello di costruzione recente per lo sci di fondo attira gli sciatori da Torino e dalla bassa Val di Susa.La stazione sciistica del Frais è stata sede Olimpica di allenamento durante le Olimpiadi di Torino 2006

2013-05-05_Paolo Tonarelli